di Massimo Bambara
L'argomento vero in casa rossonera, quello più evidente, di campo, riguarda la compatibilità tecnica fra Ibrahimovic e Pato.
O meglio, sarebbe più corretta definirla incompatibilità tecnica che sfocia quasi in una idiosincrasia tra i due, tale da condizionare in negativo alcuni aspetti della manovra offensiva della squadra.
Partiamo da un presupposto primario, che definirei di natura universale. Quando parliamo di Ibrahimovic e Pato parliamo di due pianeti diversi, a sè stanti, divisi da un'infinità di comete, entrambi tendenti verso l'assoluto.
Sono due pianeti diversi però principalmente in un aspetto: quello posturale. Il pianeta Ibrahimovic è concentrato verso l'ignoto, l'infinito, il perfettibile che vuole smettere di essere tale per raggiungere la perfezione vera.
Il pianeta Pato invece rivolge di continuo lo sguardo verso il pianeta sotterraneo, quello degli umani, quasi beandosi della propria superiorità e della maggior nobiltà della propria luce.
Questi due pianeti distanti come pochi devono convivere nell'attacco rossonero, provando a mediare fra due ispirazioni di campo, di sacrificio, forse anche di vita, assolutamente agli antipodi.
Pato in campo gioca da solo o quasi, si fa guidare dal talento enorme ed immenso di cui Madre Natura l'ha dotato, vive di pause lunghe e di passioni dell'attimo, travolgenti, fatte di gol, di giocate sopraffine, di silenzi assordanti e di sguardi nel vuoto.
Ibra è la perfetta personificazione del sacrificio che si mette al servizio della squadra, del talento fisico e tecnico che sceglie di non crogiuloarsi nell'autoesaltazione di sè stesso e del propio Io assoluto, al fine di vincere con la squadra, rappresentando essa. Ibra è la virtù del migliore che si sposa col collettivo, creando un connubbio di ferro, vitale, infrangibile.
Ibra muore per la squadra nella stessa misura in cui Pato ne dismette i panni del leader perchè non è interessato ad un onere di tale gravità psicologica.
E' su questa base, su questo universo di differenze, che nasce la difficoltà fra Ibra e Pato ad essere una coppia d'attacco vera.
Per la critica generale, per valutare una coppia d'attacco, è sufficiente prendere i dati numerici e riscontrare il numero dei gol siglati nelle partite giocate assieme.
Tale parametro, utile ed indicativo, certamente tendenziale, non è però la bussola che indica la rotta intrapresa da quel tandem offensivo che si sta valutando.
Sarebbe troppo semplicistico se così fosse.
Il campo infatti, è un giudice molto severo, rigoroso, inflessibile, non conosce l'arte della giustificazione o della partigianeria spicciola. Il campo dà lo spaccato coerente, vero, reale, di quello che due giocatori si offrono giocando assieme, nonchè dei vantaggi o degli svantaggi che il loro modo di giocare in coppia porta alla squadra.
I movimenti degli attaccanti sono spesso oggetto di tesi specialistiche a Coverciano. Carlo Ancelotti per esempio, nei lontani anni 90, prese il patentino di allenatore dopo aver sostenuto una tesi intitolata "schemi e movimenti d'attacco nel 4-4-2".
Ma veniamo ad Ibra e Pato.
La loro storia, travagliata e controversa, nasce in una notte di settembre a Cesena. Il Milan perde, male, e quel tridente abulico con Ibra al centro, Pato che parte da destra e Dinho che parte da sinistra, appare un residuato post bellico.
Ibra infatti, a differenza di Borriello, non accetta di giocare come alternativa all'asse Dinho-Pato, di leonardiana impostazione. In quel tridente, era Borriello a fare i movimenti di rientro difensivo (caso forse unico al mondo di centravanti difensivo) e ad accorciare verso il centrocampo per diminuire le distanze fra i reparti.
Ibra, il cui talento e la cui qualità non sono nemmeno lontanamente paragonabili a quelle del pur buon Marco Borriello, ottiene in poco tempo un cambio radicale di filosofia: il suo Milan, il primo Milan, sostanzialmente, ibrahimovicizzato, nasce a Bari, dopo essere passato per una serie di tentativi.
Da quel momento però il Milan diventa la squadra di Ibra, lo svedese diventa la calamita di ogni palla sporca, il punto nevralgico del gioco, l'appoggio più comodo per l'uomo in difficoltà, il porto sicuro dove le navi si rifugiano per sfuggire alla procella.
Pato, infortunatosi nel frattempo, rientra a gennaio e trova un Milan cambiato, che ha abbandonato i ritmi di samba brasileri per abbracciare, convintamente, un progetto diverso, perchè adesso c'è un obiettivo imprescindibile: vincere.
Una parola che crea una distanza lunga un oceano fra i due. Perchè per Pato vincere è una possibilità, un desiderio, per Ibra vincere è tutto.
La coesistenza è difficile perchè Ibra vorrebbe da Pato dei movimenti che Pato non ha: gli uno due nello stretto, l'aggressione della profondità sulla prima ricezione dello svedese, l'incontro da prima punta vera, il movimento a tagliare verso un lato per favorire l'inserimento.
Mentre con gli altri 3 attaccanti con cui ha giocato al Milan, Ibra ha subito trovato un'intesa tecnica, con Pato, per carenze di base del brasiliano, sia tecniche che mentali, questa intesa è diventata un'opera teatrale: aspettando Godot.
Nel frattempo è arrivato uno scudetto su cui Pato ha messo comunque una griffe d'autore anche se non la prima firma, ma il problema, sostanziale, di convivenza, non è stato risolto ed è di difficile soluzione, soprattutto in ottica futura.
I quesiti che pongo, a tal proposito sono tecnici, di campo, e meriterebbero, a mio parere, risposte tecniche, piuttosto che il solito ritornello del povero Pato che ha tutti contro e che ha 22 anni.
Le mie perplessità sono essenzialmente tre:
1) Sulle situazioni di difesa avversaria schierata il Milan manca, con Ibra e Pato assieme in campo, di una prima punta vera. Sulla ricezione di Ibra, Pato dovrebbe fare 3 cose alternative fra loro: andargli incontro per lo scambio, giocare contro la linea, fintare l'incontro per poi andare subito dentro. Spesso invece su queste situazioni, Pato rimane fermo in attesa della palla. E' un errore concettuale.
2) Quando il Boa si inserisce in area da prima punta con Ibra a rimorchio (situazione su cui abbiamo segnato il gol del vantaggio contro la Roma), Pato dovrebbe andare sul lato debole del campo (cioè quello dove non c'è la palla) per allargare il fronte di gioco, prepararsi a ricevere e giocare l'uno contro uno, con la possibilità di mettere dentro una palla interessante per uno dei due giganti. Spesso invece, su questo tipo di situazioni, Pato preferisce agire d'istinto, penalizzando lo sviluppo della manovra.
3) A mia memoria, non ricordo ancora un assist significativo di Pato per Ibra. Ne ricordo invece vari di Ibra per Pato (con Udinese, Chievo e Genoa tanto per citarne qualcuno). E' un errore pesantissimo questo di Pato, forse il maggiore, perchè dovrebbe avere l'umiltà di mettersi al servizio di un compagno che, con il suo talento manda in porta chiunque e che rappresenta il perfetto esemplare dell'uomo squadra con il truce sguardo di sfida e la voglia di non mollare mai. A volte un assist, un sacrificio per un compagno, è il prodromo, di campo, fondamentale, per cementare un'intesa, un rapporto, un feeling che tarda ad arrivare.
A tal fine, con dovizia di particolari, vorrei raccontare un aneddoto su quest'ultimo punto.
Nella stagione 2004-2005 al Milan, l'intesa fra Crespo e Sheva tardava ad arrivare e l'argentino era criticatissimo a livello di opinione pubblica.
Succede però una cosa: Sheva diventa papà. E non diventa papà in un giorno qualunque ma nella notte prima di Sampdoria Milan.
Sheva è felice ma vuole esserci contro i genovesi. Entra in campo nel secondo tempo, ne ha decisamente poco a livello fisico dopo una notte insonne, ma è lì che succede qualcosa: Crespo si avvicina a Sheva e gli dice di stare tranquillo: farà lui la seconda punta, il lavoro sporco di rientro, l'ucraino dovrà pensare solo a star davanti e fare gol.
E così accade. Il Milna vince la partita con un gol di Sheva e quel gesto di Hernan, sottovalutato ai più, diventa l'apripista fondamentale, il lasciapassare perfetto, per la stagione di Crespo, che non per nulla giocherà titolare la finalissima di Champions con Sheva, segnerà una doppietta, e solo l'imponderabile e beffardo destino del calcio gli toglierà la soddisfazione di alzare al cielo la coppa più bella.
Ma il gesto, l'intelligenza, la disponibilità di Crespo, sono l'esempio che, in questo caso, mi permette di far comprendere quanto sia empatica, ed a volte chimica, l'intesa fra due attaccanti.
Sheva allora, come oggi Ibra, era l'uomo squadra del Milan. E quando vi è un leader vero fra due attaccanti, è l'altro attaccante, quello di complemento, che deve avere l'umiltà e l'intelligenza di capire come giocare per lui e come sacrificarsi per la squadra.
E' una legge di campo, non scritta, e forse per questo ancor più vera |
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