di Massimo Bambara
In questo pezzo ho voluto fare una breve cronistoria degli ultimi 20 anni o poco più del calcio italiano, un modo per dare ai lettori un punto di vista strettamente personale sull'evoluzione calcistica nostrana (riferita all'Italia) con un inevitabile sguardo, rivolto al futuro, per il nostro grande Milan
Non sono mai stato un sacchiano puro. Non che non apprezzassi la mentalità innovativa e la voglia di stupire che Arrigo Sacchi aveva portato nel calcio alla fine degli anni 80. Solo che ho trovato, negli anni, eccessive e forse estremizzanti, alcune tesi del sacchismo, troppo dogmatiche, troppo utopistiche, a volte slegate dalla realtà delle cose.
A Sacchi secondo me, va riconosciuto il merito di aver portato il gioco del calcio dal Medioevo tattico al Rinascimento delle idee, per condurlo infine verso un Illuminismo etico e sportivo che gli fa onore e rende enormi meriti al genio di Fusignano.
Laddove Sacchi a mio parere ha invece fallito è nel mantenimento di questa grande rivoluzione, nella sua gestione.
E' stato un genio del momento, della rivoluzione delle idee, ma è stato anche un pessimo maestro del suo pensiero.
Di fatto gli eredi del sacchismo, cioè gli allievi di Sacchi, hanno lasciato da parte quella carica di spettacolo, di voglia di stupire e divertire la gente tanto cara al vate romagnolo, trasformando, a metà anni 90, il calcio italiano in un recipiente enorme, pieno di tatticismi vacui e di un 4-4-2 ortodosso e nemico giurato dell'inventiva.
Capitava, in quegli anni, di assistere a partite che si svolgevano in 30 metri, in cui le maggiori emozioni erano dei contrasti maschi e dei corpo a corpo struggenti, con le occasioni principali che nascevano da palle inattive o da situazioni figlie di movimenti studiati in allenamento con ferrea e rigida applicazione.
E' stato, quel periodo, il sovvertimento ideologico del sacchismo. Uno dei grandi meriti di Arrigo, l'aver cioè portato la tattica nel calcio, veniva estremizzato, divenendo così da valore positivo, un disvalore.
E' proprio in quegli anni che, piano piano, è nata l'idea della difesa a 3 come variante tattica per sfruttare di più il gioco d'attacco: l'Udinese zaccheroniana di fine anni 90 è stata una grande realtà del calcio italiano e, sono convinto, se non fosse stata smembrata, nel giro di 2 anni avrebbe potuto concorrere per lo scudetto, tanto era perfetta come macchina da guerra.
Ma quella squadra, che viveva sulla grande intesa dei tre davanti (Poggi, un mancino che partiva da destra, Bierhoff al centro ed Amoroso che partiva da sinistra), sulle geometrie di Walem, la saggezza di Giannicchedda, un trio difensivo che aveva meccanismi sincronizzati (Bertotto, Calori e Pierini con Gargo primissima alternativa), aveva bisogno solo di pochi ritocchi per giocarsela.
Anche lì però, quel tipo di gioco e di impostazione di squadra, venne copiato nei numeri ma non nello spirito e, di fatto, ne vennero fuori, nelle annate successive, squadracce infarcite di mediani a centrocampo e sulle fasce, che si affidavano totalmente al talento offensivo dei tre davanti.
Ne fu un esempio proprio il Milan a cavallo fra la fine degli anni 90 e l'inizio degli anni 2000, vincitore anche di uno scudetto, ma che arrivò a giocare, in un certo periodo (stagione 1999-2000), con una linea mediana composta da Gattuso, De Ascentis, Ambrosini, Guly, con Giunti addirittura a fare il trequartista. Il trionfo del calcio muscolare sulla tecnica e sui tocchi di prima.
Il Milan, di quel tipo di calcio, ne era solo una delle espressioni. Anche le altre squadre incontravano questo deficit di povertà tecnica, con la Juve sola (ed in parte la Fiorentina) a compensare detto limite, avendo in Zidane un talento di proporzioni uniche, che, coi suoi tocchi e le sue magie, rendeva spellate le mani della platea che lo seguiva.
E' stato con l'avvento di Ancelotti al Milan e la contingenza di una squadra infarcita di giocatori di talento che, d'improvviso, il calcio italiano ha avuto un sussulto.
L'Italia calcistica infatti era reduce da un mondiale deficitario (2002) e da anni di risultati, nelle coppe europee, profondamente disastrosi.
Quel Milan però, che scelse in Pirlo davanti alla difesa il suo brand e che vide in Seedorf e Rui Costa i magnifici alfieri di un calcio di possesso, trovò poi, l'anno dopo, in Kakà, un fulmine capace di squarciare certezze assolute come il possesso palla, per trasformare una squadra nata per tenere il pallone fra i piedi, in una via di mezzo fra essa ed una macchina a 200 all'ora che vuole andare sempre in verticale.
Quel Milan, il Milan 2002-2007, ha lasciato non solo un grande ricordo, ma anche un grande insegnamento: la qualità, che da sola certamente non basta per vincere, è però il presupposto fondamentale per creare un collante tecnico duraturo che vada oltre le inevitabili scaramucce di confine nazionale.
Quel Milan era di formato europeo perchè volava alto, era già proiettato nello spazio mentre gli altri pensavano ancora al Medioevo sportivo. Era una squadra che rapiva gli occhi e sussurrava piacere, era un trionfo del talento che sceglieva di danzare con l'armonia.
Quello spirito, quella carica, quel coraggio, quel talento, non si sono persi, improvvisi, fra i meandri bui delle logiche tattiche. Sono nascosti dentro di noi.
Ed è principalmente ad essi che dobbiamo aggrapparci e che dobbiamo volere se il nostro obiettivo, negli anni, è quello di creare un Milan di dimensione europea.
Accontentarsi del campionato è certamente un bell'accontentarsi.
Ma chi ha vissuto epoche di rivoluzioni, non potrà mai scegliere di gestire l'esistente. Soprattutto adesso che, il Presidentissimo di mille battaglie, è tornato sulla sella maestosa dai colori rossoneri.
Perchè il Milan, per molti dei suoi tifosi, è una metafora della vita ma è anche e soprattutto un sogno. E non esiste uomo sulla terra, che non desideri continuare a sognare |
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