di Francesco Signorile
Le vicende di “scommessopoli”, come anche le figuracce delle squadre italiane nei primi cimenti europei, ma pure l'ultimo calciomercato, di stampo prettamente “difensivo” di fronte all'irrompere non solo dei tradizionali scialacquatori provenienti dalla Spagna, ma anche dei nuovi ricchi, russi o arabi che siano (per non parlare degli strascichi maleodoranti della vicenda “calciopoli” e dell'ultimo assurdo sciopero, su cui sicuramente ci sarà occasione di intervenire nel futuro prossimo venturo), hanno messo improvvisamente davanti a chi ancora non se ne fosse accorto le gravi manchevolezze dell'intero sistema calcistico italiano, tante volte denunciate da un profetico ma mai così tanto inascoltato Adriano Galliani.
Poiché questi pazzi di Milan Day mi hanno chiesto di scrivere per la loro creatura dandomi la più ampia libertà di manovra, partirò dal primo dei temi citati, quello di “scommessopoli”, per lanciare una provocazione, sperando che da questa mia umile tribuna possa magari nascere una feconda discussione, aperta a tutti gli sviluppi, senza alcuna preclusione. Io credo che le squadre professionistiche italiane siano troppe, che la A a 20 squadre sia eccessiva, la B a 22 un'enormità, le due Leghe Pro, di Prima e Seconda divisione, suddivise nei rispettivi gironi, con mi pare altre 76 compagini, un autentico obbrobrio. Lo so che in tre righe ho seppellito intere Tradizioni, Storie, Passioni, che non sono soltanto quelle delle tre Grandi del calcio italiano ma arrivano fino al più piccolo dei club di quartiere che ancora tra gli stenti riesce a vivacchiare nell'ultimo gradino del calcio professionistico, ma... Ma non ce lo possiamo più permettere.
Tutto qui.
Il calcio professionistico di élite deve tornare ad essere tale, per un numero circoscritto di società e per un corrispondente numero limitato di calciatori: lo richiedono i costi sempre più elevati, lo richiede l'esigenza sempre più forte di uno spettacolo di qualità, lo richiedono la trasparenza e la regolarità delle competizioni, lo richiede alla fin fine il semplice buon senso. Quando uno inizia a giocare nelle giovanili di una squadra, qualunque essa sia, deve avere la certezza che se arriverà a diventare un calciatore “vero”, sogno di tutti, sarà perché avrà superato una selezione durissima, spietata, finanche ingiusta a volte, come tutte le selezioni “vere”, e non dovrà mai avere il retropensiero che comunque anche ad arrivare solo nella vecchia serie C si potrebbe avere un contratto da fare invidia ad un medio manager di una discreta realtà imprenditoriale magari quotata in Borsa.
La quinta industria del Paese non può più permettersi certe “prodezze”. Un campionato di Serie A di non più di diciotto formazioni, una B di non più di venti, ed una C unica con un'altra ventina di formazioni, con una forte impronta giovanile, dovrebbero costituire il massimo concepibile a livello professionistico: tutto il resto dovrebbe rientrare all'interno del calcio dilettantistico, in cui si parli esclusivamente di rimborsi spese “veri”, documentati, con la previsione di norme severe tese a garantire il rispetto rigoroso di queste disposizioni. In tal modo arriverebbero al calcio professionistico solo i meritevoli, si aumenterebbe automaticamente il livello qualitativo delle competizioni, non si darebbero false illusioni di una carriera “facile” a chi inizia, si comincerebbero ad abbassare i costi “di sistema”, in definitiva si darebbe una ragionevole certezza di regolarità e correttezza a tutti i campionati, obbligando TUTTI ad un sano e necessario bagno d'umiltà, che li faccia ritornare coi piedi per terra..
Le “pecore nere” ci saranno sempre, fa parte della natura umana, ma il compito dei reggitori del calcio nazionale non è quello di cancellare le nequizie del mondo, ma quello di garantire il più possibile che le competizioni si svolgano nel clima più sereno, leale, trasparente possibile, coi conti in ordine, ai fini di uno spettacolo sempre migliore e tecnicamente valido. Utopia? Ne riparleremo
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