Un centrocampista tutto cervello

Sembra quasi guidata dal caso la storia di uno dei centrocampisti più forti che la storia rossonera ricordi. Per i conoscitori dell’aneddotica milanista la vicenda è nota, ma per chi non la conoscesse è bene raccontarla dall’inizio. Siamo nell’estate del 1961: il presidente milanista Andrea Rizzoli ha deciso di fare le cose in grande e “regala” al neo tecnico Nereo Rocco un centravanti coi fiocchi, l’inglese Jeames (Jimmy) Greaves.

Il bomber arriva dal Chelsea con delle credenziali incredibili: 124 reti in 157 partite ufficiali. E le conferme, in fatto di numeri, non si fanno attendere anche nel Milan dal momento che in pochi mesi riesce a mettere a segno la bellezza di 9 reti in sole 13 partite. Ma c’è qualcosa che non va. Il ragazzo fuori dal campo è un disastro: si allena poco, non fa vita da atleta, beve e racconta bugie. Il Paron non lo sopporta più, anche perché, nonostante i gol, la squadra è di una discontinuità incredibile (dopo 11 giornate di campionato ha 5 punti di distacco dalla capolista Inter).

La svolta è totale: Greaves viene rispedito in patria al Tottenham, ed il Milan lo sostituisce con un centrocampista brasiliano di 29 anni, Dino Sani. Il centrocampista carioca da un anno milita in Argentina nel Boca Juniors (acquistato tra l’altro per la cifra record di 1 milione di dollari). Ha già una carriera importante alle spalle, potendo anche fregiarsi del titolo di Campione del Mondo conquistato col Brasile nei Mondiali svedesi del ’58. Gli argentini del Boca pensano che Sani abbia già dato il meglio di sé, e così, a novembre di quel 1961, decidono di cedere alle richieste del Milan e lo mandano in Italia.

Quando arriva da noi Dino Sani non ha proprio l’aspetto dell’atleta: è mingherlino, non molto alto, pelatino e con i baffetti stile Clark Gable. In più non è proprio un fulmine di guerra, anzi, più che correre sembra quasi camminare. Rocco al primo impatto sussurra “..e questo sarebbe un calciatore?..”, ma dopo pochi allenamenti capisce di avere per le mani l’uomo giusto per rimettere in sesto il suo Milan. Sani, come detto, non fa del dinamismo, della velocità e della corsa la sua arma migliore, ma possiede delle caratteristiche che lo rendono unico. Ha una tecnica sopraffina, sa usare entrambi i piedi, ma, soprattutto, ha un senso della posizione
eccezionale.

Non ha la velocità nelle gambe, ma ha una velocità di pensiero che gli permette di sapere cosa fare prima ancora di ricevere il pallone: la difesa recupera la palla, la serve a Sani che “fa correre” la palla lanciando con precisione millimetrica gli attaccanti in profondità. Un regista perfetto, che ha il dono di integrarsi alla perfezione con l’altro “genio” in maglia rossonera, Gianni Rivera. Mezz’ala destra Sani, mezz’ala sinistra Rivera, dietro a fare la regia il brasiliano, davanti a rifinire per gli altri e ad attaccare il giovane alessandrino. Nasce un asse perfetto, ed il Milan discontinuo della prima parte del campionato diventa un rullo compressore: quarta alla fine del girone d’andata (dietro Inter, Bologna e Fiorentina), la squadra di Rocco nel ritorno conquista 31 punti su 34 e vince alla grande l’ottavo scudetto della sua storia. I tifosi ci hanno messo pochissimo a rendersi conto che il Milan aveva fatto un grande acquisto, e così “Cervello Sani” diventa un autentico idolo del popolo milanista.

Lo squadrone messo in piedi in quel campionato raccoglierà risultati ancora migliori nella stagione successiva. Con una bellissima cavalcata, il Milan sarà la prima squadra italiana a conquistare la Coppa dei Campioni. Il 22 Maggio del 1963 (tra l’altro il giorno precedente al suo 31mo compleanno), Dino Sani guida i rossoneri nella vittoriosa finale di Wembley contro il super favorito Benfica di Eusebio. Un trionfo meraviglioso, immortalato dalle foto dell’epoca che ritraggono il capitano Cesare Maldini che in tribuna solleva l’ambito trofeo con ai lati Rivera in impermeabile antracite e Sani con un soprabito nocciola: sembrano due passati di lì per caso, ed invece sono i geniali condottieri della squadra più forte d’Europa.

La stagione ‘63/’64 è caratterizzata da una serie di cambiamenti che stravolge il clima in casa rossonera: cambia il presidente (Felice Riva subentra a Rizzoli) e cambia l’allenatore (l’argentino Carniglia al posto di Rocco). Il Milan perde la Coppa Intercontinentale (in 3 gare contro il Santos di Pelè), il campionato (arriva terzo), e viene eliminato in Coppa Campioni ed in Coppa Italia ai quarti. La stagione si trasforma nella fiera delle occasioni perdute, ed in questo clima non serenissimo anche Dino Sani dice basta: afflitto da problemi alla schiena, decide di porre fine alla sua avventura italiana e torna in Brasile.

Erano bastate tre stagioni per farlo entrare nelle grazie del tifo milanista e per investirlo del riconoscimento di erede del grande Gunnar Gren. Ad accrescere la stima nei suoi confronti aveva contribuito anche il suo carattere ed il suo modo di fare da vero signore e gentiluomo. Nella sua carriera, anche da allenatore, non fece mai uno sgarbo a nessuno, perché per lui l’onore e la lealtà erano dei valori da cui non si poteva prescindere.

Sani era quello che declinò l’invito di far parte della nazionale italiana degli “oriundi” (1962) perché non “avrebbe potuto mai affrontare come avversario il suo Brasile…”, e fu quello che alla vigilia del Mondiale messicano del 1970 rifiutò di diventare CT della Seleçao (che quei mondiali li avrebbe vinti) perché avrebbe dovuto prendere il posto del suo grande amico Joao Saldanha.
La grande sapienza calcistica che lo contraddistinse in campo gli permise di fare una ottima carriera anche da allenatore: 3 titoli del campionato brasiliano con l’Internacional ed 1 campionato uruguayano col Penarol costituiscono il suo palmares da tecnico.

Certo è che Dino Sani verrà ricordato per sempre per la sua classe cristallina e per la tecnica straordinaria con cui guidava le squadre in cui militò. A proposito di questo, mi piace terminare questo pezzo con la traduzione delle parole con cui lo descrive il suo connazionale Marcos Guedes: “La palla era trattata così bene da Dino Sani, che i sostenitori ed i tecnici dei club in cui andò a giocare si preoccupavano molto quando questa lasciava i suoi piedi e si dirigeva verso i compagni che non avevano con la sfera la sua stessa confidenza. Il passaggio era perfetto, ma quasi mai chi lo riceveva la trattava con lo stesso affetto!”. Non credo serva aggiungere altro.

 
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